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L’antidoto alla colpa si chiama dolore

22 Aprile 2011
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28/03/2024

Si chiama "Cleansing the Soul by Hurting the Flesh" ed è il report di ricerca frutto della collaborazione delle Università del Queensland, Exeter e dell'Università di Trento (Dipartimento di Scienze Cognitive e dell'Educazione) che cerca di analizzare il rapporto tra colpa e dolore nelle dinamiche interpersonali.

Gli autori, Brock Bastian, Jolanda Jetten, e Fabio Fasoli non mancano di segnalare la penuria di studi in merito e riportano una spiegazione psicometrica che si riallaccia trasversalmente alla spiegazione sociologica e semiotica della significazione del dolore nella nostra società.

L’esperimento è volto quindi a riprodurre le condizioni di circostanza verosimili e le motivazioni per cui le persone si infliggono dolore in conseguenza dello scotto per l’immoralità ravvisata in precedenti azioni intraprese. L’esperienza del dolore è vissuta come risposta reattiva che riduce gli effetti della colpa. L’obiettivo dichiarato è stato quello di verificare e quantificare la correlazione tra consapevolezza dell’atto colposo commesso , motivazione sottesa alla deliberata esposizione al dolore fisico e, dopo tale esperienza, l’eventuale riduzione del senso di colpa percepito.

Nel vivo dell’ Esperimento62 studenti universitari (età media di 22 anni, 44 donne e 40 uomini), ripartiti in tre gruppi, rispettivamente di 20, 19 e 23 soggetti, ciascuno corrispondente ad una delle tre condizioni sperimentali previste dal disegno dell’esperimento, denominate “pain” “no pain” oltre a quella che generalmente si dice “di controllo“. La prima e la seconda condizione sperimentale (pain e no pain) prevedono entrambe una prima fase in cui ai soggetti viene richiesto di raccontare per iscritto, “di getto” in 10/15 minuti, un episodio della loro recente vita quotidiana in cui hanno ravvisato di essersi comportati immoralmente. Per comportamento immorale i ricercatori hanno inteso genericamente quelli dalla cui attuazione è scaturito rigetto o esclusione sociale inflitto ad un’altra persona. La terza condizione sperimentale, detta “di controllo”, prevedeva che i restanti 23 soggetti riferissero per iscritto un episodio di semplice interazione ordinaria con altre persone.

A tutti i partecipanti è stato poi richiesto di compilare il PANAS (Positive and Negative Affect Schedule), un questionario con cui ciascuno di essi deve valutare l’adiacenza di 10 aggettivi positivi e 10 aggettivi negativi rispetto alla proprio stato d’animo corrente. Con il PANAS si rilevano gli stati affettivi positivi e negativi, supposte come dimensioni tra loro distinte e indipendenti.
Successivamente ai partecipanti alle condizioni sperimentali 1 e 3 (pain e control) è stato richiesto di immergere le mani in un secchio di ghiaccio fino al limite della sopportazione mentre per i partecipanti alla condizione 2 (no pain) si è esclusa la prova di sopportazione del dolore, richiedendo loro di immergere le mani in acqua tiepida.

Gli stati affettivi correnti dei tre gruppi di partecipanti sono stati poi nuovamente rilevati con la compilazione di un nuovo PANAS. Il dolore fisico è stato quantificato chiedendo ai partecipanti di collocare l’intensità della loro esperienza sulla Scala del dolore di Wong-Baker (che prevede gradi da 0, decodificato come ‘assenza’, a 5, ‘dolore massimo’);

I Risultati – Le rilevazioni dell’esperimento hanno registrato tempi di esposizione al dolore fisico sistematicamente più lunghi per coloro che hanno affrontato i compiti dell’esperimento dopo aver richiamato alla coscienza episodi generatori di senso di colpa. Al recalling dell’azione ‘colposa’ commessa i soggetti hanno risposto infliggendosi quantità di dolore maggiori perché maggiormente motivati a farlo, come se l’esperienza del dolore potesse in qualche modo fungere da azione riparatrice. E in effetti nel secondo PANAS compilato i soggetti hanno mostrato che ad una esperienza dolorifica resa deliberatamente più intensa corrispondeva in senso di colpa diminuito. Questa correlazione tenta di spiegare psicometricamente come, dal concetto alla pratica, il dolore sia interpretato sistematicamente come punizione, in ottemperanza a ciò che gli autori dello studio chiamano “modello giudiziario” nell’attribuzione di senso alla categoria del dolore.

In pratica il dolore (inteso in senso esteso e multiforme) innescherebbe una contromisura di bilanciamento rispetto alla colpa, così come rilevabile analizzando appena la ratio delle pene giudiziarie nella prassi della riparazione ai torti contratti con la società. Oltre a tale significazione macro-sociale, nel piccolo dei rapporti interpersonali quotidiani le forme di autolesionismo (non solo fisico) possono essere adottate con la funzione di segnalare all’altro la presenza di rimorso per le proprie azioni: non ci si infligge dolore se non per mostrarsi capace di sopportarlo e con ciò si chiede di essere nuovamente riconosciuto come “non colpevole” .

Raffaele La Gala

© Riproduzione Riservata
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