Non si parla della Germania nazista, ma dell’Italia dei ric
Ho letto pochi giorni fa qualche ANSA interessante sul tema della “fuga dei cervelli”. Non si parla della Germania nazista, ma dell’Italia dei ricercatori. Il MIUR, Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca ha stanziato 3 milioni di euro per salvare la carriera a 300 studiosi che abbiano già svolto valide attività di ricerca negli atenei nostrani. Mentre il Ministero promette altri stanziamenti per la ricerca, anche Greenpeace si organizza per raccogliere fondi. Per metafora o per paradosso, le menti più brillanti del panorama scientifico italiano devono essere protette come animali in estinzione. Cosa succede?
Le attività di ricerca, didattica e tutoraggio presso le università pubbliche hanno da sempre costituito il baluardo della scienza italiana. Intendendo per scienza “il risultato delle operazioni del pensiero, in quanto oggetto di codificazione sul paino teorico e di applicazione sul piano pratico”. Perché sia ben chiaro l’essenziale: senza la ricerca non c’è riflessione, non c’è confronto, non c’è critica. Non c’è evoluzione né nella tecnica né nella società.
E’ una premessa non banale, per chi vive in questi anni tormentanti che rendono la ricerca una giungla. Proprio questo: un groviglio in districabile e pericoloso di contratti a progetto coordinati e continuativi e contratti di “ricercatore a tempo determinato”, borse di studio e assegni di ricerca, borse di dottorato e contratti di docenza. Permangono, oggi, coloro che hanno uno status di ricercatore garantito, che gli consente di praticare in maniera serena l’attività che porteranno avanti fino al futuro. Ma la maggior parte sono costretti a difendere la dignità di “cultori della materia”, “collaboratori/trici didattici”, il tutto a titolo volontario e gratuito. Nessuno sa quantificarli precisamente, ma le stime li vogliono intorno alle 50 mila unità.
Il lato oscuro della ricerca ne rappresenta più del 50% sia negli atenei che negli istituti. Privi di tutele, sottopagati, costretti a cercare attività alternative. Si vaneggia di “esternalizzazione delle competenze” e poi si ha a che fare con contratti di lavoro squallidi, utili solo a chi li somministra. Chi ne ha esperienza lo sa: E’ chiaro che un ricercatore a progetto lavori di più, e meglio, di un dipendente a tempo indeterminato. Il giovane Co. Pro. ex Co.Co.Co. il posto deve guadagnarselo, dimostrando di essere il migliore, spremendosi in tempo ed energie nella speranza di essere assunto. Vana? Ai posteri l’ardua sentenza.
Il mio pensiero sul mondo della ricerca è un requiem. L’ISTAT rileva nell’ultimo triennio la battuta d’arresto fatidica alla spesa per ricerca e sviluppo nelle imprese. Nelle università, le assunzioni di nuovi docenti rallentano. La spesa degli enti pubblici per la ricerca è stabile, se non in diminuzione.
Le legislature si affannano nel rilanciare il sistema di ricerca italiano, nel provvedere alla meno peggio a salvare almeno la facciata. Con qualche contratto a macchia di leopardo. Ma io ho visto facciate di istituti universitari coperte da striscioni che avrebbero fatto vergognare qualunque ministro. Ho visto atenei in sciopero, proteste dell’esasperazione, laboratori in crisi. Ho visto i miei professori più cari cambiare città e ho sperato per loro. Un in bocca al lupo di cuore ai cervelli che fuggono. Che possano realizzare il loro meglio, in nome dell’Italia, in qualunque luogo abbia la lungimiranza di accoglierli.