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Sul Mediterraneo venti di rivolta

29 Gennaio 2011
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25/04/2024

Il bacino del Mediterraneo è scosso da forti tensioni sociali politiche ed economiche, acuitesi all’inizio di quest’anno, varie sono le cause per storia e realtà sociale.

Con una breve digressione si proverà a trattare questa questione assai urgente che minaccia lo status quo nel Mediterraneo. Caso più eclatante è sicuramente la Tunisia dove le proteste, spesso feroci, hanno costretto il presidente Ben Alì all’esilio forzato in Arabia Saudita, fuga cui ha seguito la formazione di un governo di “Unità nazionale”

per evitare una sommossa e per tentare di controllare le proteste in modo democratico. Nelle consultazioni per l’esecutivo è ritornata l’opposizione che in 23 anni (dalla salita di Ben Alì) era stata estromessa dalla vita politica con le buone o con le cattive… La situazione resta delicata ed è in continuo mutamento: vari ministri hanno già dato le dimissioni e l’interim sembra più che mai difficile.
Non si placa in Egitto lo scontro etnico che ora è diventato politico, nel mirino dei

manifestanti vi è l’anziano leader Hosnī Mubarak. Per anni il premier egiziano ha garantito (a volte con il pugno di ferro) una convivenza pacifica tra le diverse etnie nel paese (si ricordi la minoranza copta, tra le più numerose del Nord Africa, al centro degli scontri nel dicembre scorso), ma ora che il suo carisma sembra offuscato le tensioni sopite sembrano emerse con forza ed il rischio è quello di una polveriera.
In Libano si è aperta una crisi politica quando il 12 Gennaio scorso, i ministri sciiti filo

iraniani di Hezbollah erano usciti dal governo del sunnita Saad Hair per proteste contro l’Onu che indaga sull’assassinio di Rafiq Hair, padre di Saad, ucciso nel 2005 in un attentato. Atto terroristico su cui pesa l’ombra Hezbollah secondo il tribunale Onu. Dopo le dimissioni del leader sunnita, è stato designato premier lo sciita Najjib Maqati e il paese è ripiombato nel terrore dell’ennesima guerra civile con continue proteste anitiraniane e antisciite.

Venti di guerra soffiano anche in Albania dove le proteste contro il governo sono degenerate in rivolte quando il 21 gennaio scorso le guardie repubblicane hanno aperto il fuoco sulla folla uccidendo tre persone. Sali Berisha attuale leader, grida al tentato golpe, accusando il rivale socialista Edi Rama da lui sconfitto nelle elezioni del 2009 macchiate dal sospetto di brogli. Sia opposizione che governo chiedono aiuto all’Europa e all’Italia per sbrogliare la situazione e scongiurare altre violenze.

Come mai la situazione geo-politica nel Mediterraneo è cosi incandescente? La causa più vistosa è sicuramente la crisi economica mondiale che persiste e si accentua sui paesi più poveri e in via di sviluppo. Storicamente ogni grave crisi mondiale ha spostato gli equilibri politici e in un’aria calda come il Medio Oriente e il Magreb, dove questi equilibri sono instabili, il rischio è alto. A giustificare questa tesi basta ricordare che le proteste tunisine sono iniziate quando un’ennesima tassa ha fatto innalzare il

prezzo del pane e degli alimenti. I rivoltosi hanno identificato il problema in un economia allo sfascio e in uno stato dedito alla corruzione, mentre le proteste esplodevano la moglie del presidente ha pensato bene di fuggire con “il malloppo” quantificato secondo alcune stime, in cinque tonnellate d’oro!. Ed è qui che emergono le responsabilità dell’Occidente e dell’Europa in particolare: Con la caduta del colonialismo nella seconda metà del secolo scorso, la politica occidentale è passata

ad esercitare in modo meno invasivo nei confronti dei paesi in via di sviluppo e delle ex colonie. Ecco allora il neo-colonialismo o, come lo chiamano alcuni, il neo-imperialismo made in Usa, che prevede una strizzata d’occhio a regimi che col pugno duro, l’uso della forza assicura un mantenimento dello status quo, che consente investimenti ed affari esteri, con lo sfruttamento di manodopera o, dove sono presenti, delle risorse naturali. Non è un caso che i leader filo-occidentali abbiano consensi che sfiorano, e a

volte superano il 90%, specie nelle repubbliche ex-sovietiche. Lo stesso Mubarak, tanto amato in Italia, ha trionfato nelle ultime elezioni del 2005 con circa l’88% e rotti dei consensi in elezioni multipartitiche (un piccolo calo di consensi se si pensa che quando si presentava da solo giungeva anche al 91%…). È chiaro che spesso e volentieri all’opposizione viene proibito di partecipare alle consultazioni anche con le cattive, e i metodi di persuasione al consenso ricordano i nostri regimi europei del

secolo scorso. In molti stati governati da questa democrazia truccata, l’occidente chiude un occhio quando si parla di mancanza di rispetto dei diritti umani, sempre in nome di una stabilità formale. Un tal regime travolto da gravi problemi economici precipita, e gli stati alleati o se si vuole complici, non possono voltare le spalle subito a sistemi semi-dittatoriali che hanno aiutato ad insediarsi: ecco spiegate le parole della nostra diplomazia, che all’indomani delle proteste di Tunisi, recitava il motto “dalla

parte di Ben Alì”. Un’altra concausa è l’affacciarsi di questi paesi sul Mediterraneo, il vedere al di là del mare sistemi politici democratici ed economie stabili come l’aria dell’Unione Europea non può andare d’accordo con regimi corrotti, violenti ed inefficienti. L’UE con la sua moneta unica sembra un miraggio, un canotto di salvataggio (vedi la Grecia) in una crisi dirompente. Ci prova la vicina Albania che chiede sempre con maggior forza di entrare in Europa, ma sulla candidatura pesano i

presunti brogli elettorali del 2009. Come deve dunque comportarsi l’Unione Europea davanti a tali richieste di democrazia, o semplicemente di una vita migliore che giungono dal Mediterraneo? Si deve abbandonare la politica neo-imperialista che mortifica la dignità dei cittadini di questi paesi? Rinunciare al ruolo di burattinai di alcuni paesi occidentali e non, storici colonizzatori come Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Russia, e delle nuove potenze mondiali come Cina ed India, sarebbe un

toccasana per il mondo intero. C’è un “ma” grosso come una casa e riguarda il sistema economico, esso si basa (in maniera riduttiva, è chiaro) su sfruttati e sfruttatori, non si può tollerare che alcuni paesi si tolgano dal giogo occidentale, poiché ciò metterebbe a rischio la leadership stessa dei paesi più industrializzati.

(Ringrazio “Diego” per l’aiuto nella stesura di questo articolo)

Pierluigi Gabriele

© Riproduzione Riservata
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